L’ITALIA DEL CAFFE’: TRA PREGI E CURIOSITA’

Dal corno d'Africa alle piazze italiane.

Innanzitutto l’origine delia parola: il termine qahwa nella poetica araba indica ciò che ‘rapisce e incita al volo’, dunque una bevanda inebriante che innalza l’anima oltre a sostenere la mente dei monaci nelle veglie di preghiera. Ed è significativo che, stante la proibizione coranica per ogni alcolico, il caffè fosse definito ‘vino d’Arabia’. Dal turco kahwè la parola si diffonde nel mondo sulla scia delle navi che trasportavano la pianta verso nuovi lidi: caffè a Venezia e coffee a Londra fino a kopi in Indonesia e kehi in Giappone. Altro termine storico è moka, riferito al porto yemenita che per vari secoli ha rappresentato l’unico punto d’imbarco del caffè raccolto nella zona d’origine, il Corno d’Africa. Quanto alla nostra lingua, se la rilevanza di un soggetto si può dedurre dal suo corredo linguistico, c’è da chiedersi che cosa possa superare il caffè. Anche il pane, che è l’alimento quotidiano per eccellenza, non regge minimamente il confronto, forse perché legato alla sussistenza e non al piacere, come la nera bevanda che risulta declinabile all’infinito. ‘Espresso’ è il primo termine che identifica il caffè in Italia e anzi è diventato una bandiera del nostro buon gusto nel mondo. L’aggettivo si riferisce alla celerità, alla preparazione sul momento, grazie a quelle macchine a pressione che, dai primi del Novecento, sono vanto dell’industria nazionale. L’ ‘espresso’ nasce negli anni dell’arte futurista e si lega al mito del viaggio e del treno, come nei manifesti art déco che pubblicizzavano macchine da caffè monumentali sotto ali d’aquila e altisonanti nomi, come la Victoria Arduino. La stessa fiducia nelle sorti magnifiche e progressiste del caffè porta al battesimo della macchinetta domestica, l’inimitabile Moka Express: si è negli anni Trenta quando Alfonso Bialetti, industriale biellese, ha la fatidica intuizione osservando il funzionamento di una pentola da bucato. C’è di buono che la quotidianità stempera il trionfalismo dell’industria: la caffettiera resta quella che è, un oggetto di affettuosa consuetudine, tanto da essere chiamata in causa anche quando si parla di un’automobile sgangherata, al pari del macinino, che un tempo era a manovella e richiedeva olio di gomito.

Troppo semplice dire caffè

Un’italica virtù che diverte molto gli stranieri è quella di complicare le cose semplici. Probabilmente si riferiscono anche alle mille sfumature dialettiche che riusciamo a dare al caffè. Per indicarne la concentrazione si dice ‘lungo’ o ‘ristretto’, salvo che in Toscana, dove, per non smentirsi in fatto di originalità, la mettono sul verticale e distinguono tra ‘alto’ e ‘basso’. Di tanto in tanto salta fuori un ‘lunghetto’, vale a dire lungo ma non troppo.
Da segnalare, anche ‘caffettino’, diminutivo vezzoso che compensa il vago senso di colpa di chi beve troppe tazzine o indulge a lungo nella conversazione attorno ad esse.
Sempre in tema di automortificazioni, ecco un chiaro caso di presa in giro linguistica: il ‘caffè d’orzo’, una tisana di cereale promossa d’ufficio al massimo livello del gusto. 

Caffè d'orzo
Caffe americano

All’opposto, il caffè può anche essere ‘doppio’, vale a dire due tazzine servite in tazza grande, richiesta che si sente spesso fare di notte da qualche disperato che viaggia in autostrada.
Abbastanza frequente la richiesta di un ‘americano’, allungato con acqua bollente. A livello d’aneddoto si parla del caffè ‘turco’, non filtrato, spesso allargando la chiacchiera alla ‘caffeomanzia’, l’arte di predire il futuro esaminando le figure formate dai fondi all’interno della tazzina. Il caffè può anche essere ‘freddo’ e non perché sia stato dimenticato sul banco: si beve destate, nel migliore dei casi ‘shakerato’, come fosse un cocktail. 

Scendendo ancora di temperatura, si parla infine di ‘granita al caffè’, una spumosa delizia con la quale in Sicilia si farcisce la brioche della colazione. A proposito, il caffè può anche essere ‘affogato’, senza che questo suoni a disgrazia: basta versarlo in una coppa su un gelato alla vaniglia.
Per gli ipersensibili il caffè può essere ‘decaffeina to’: al bar si chiede un ‘Dek’ o un ‘Hag’, dal nome dell’azienda tedesca che ha messo a punto il processo d’estrazione.

Granita Siciliana al caffè
Caffè solubile

Nei casi d’emergenza il caffè può essere anche ‘istantaneo’ o ‘solubile’: è stato di conforto per i fanti nelle trincee della Grande Guerra, ma ne perdura validissimo l’uso quando si va in campeggio. Può anche essere tascabile, ed è il pocket coffee, la pralina di cioccolato e caffè liquido, brevettata con italico genio nel 1968 dalla Ferrero.
La nera bevanda mette anche lo zampino nel tiramisù: savoiardi inzuppati nel caffè e crema di mascarpone per ritemprarsi, secondo la leggenda, dalle fatiche amatorie.

Nel linguaggio degli intenditori sono entrati a far parte nuovi termini: ‘Arabica’ e ‘Robusta’, per distinguerne le specie; ‘lavato’ e ‘naturale’, a seconda della lavorazione del chicco, con notevole influenza su aroma e corpo della bevanda. Si parla anche di caffè ‘gourmet’, mutuando dall’enologia il termine ‘grand cru’ per indicare produzioni specifiche e localizzate.
Termine di recente introduzione è ‘biologico’, quando cioè il caffè deriva da coltivazioni indenni da prodotti chimici. Finalmente si parla anche di ‘equo e solidale’, nel caso di produzioni che garantiscono una corretta remunerazione al coltivatore, prima rotella di un ingranaggio economico che culmina nelle multinazionali dell’alimentare in uriescalation di prezzi che spesso ha dell’incredibile.

Le infinite sfumature del caffè

La faccenda si complica quando il caffè incontra altre sostanze, cambia colore e sapore come un piacere declinabile all’infinito. Il riferimento è in primo luogo per il latte e i suoi derivati. Sui banchi dei bar nostrani si inizia dal caffè ‘macchiato’ e, passando per il cappuccino’, cosiddetto dal colore del saio dei frati, si giunge al ‘latte macchiato’. Nulla a confronto dell’offerta dei caffè viennesi, che ne fanno quasi una mania: il menu del mitico Herrenhof conta oltre venti sfumature linguistiche, caffè bruno, tazza d’oro, oro noce e via dicendo con libertà di traduzione. Poi si apre l’ampio capitolo degli alcolici, grazie ai quali il caffè diventa corretto’, aggettivo che, interpretato alla lettera, presuppone l’imperfezione o l’incompletezza del caffè nero. Al Nord si usa grappa; al Centro-Sud, sambuca o anice. A Livorno, con il rum il caffè diventa ‘ponce’, familiarmente detto ‘torpedine’ per la scossa che dà. A Napoli la dose di liquore è la ‘presa’; a Milano, il ‘lumino’ per la somiglianza del bicchierino con le piccole candele da cimitero.
Infine le spezie, secondo un’antica usanza mediorientale, oggi ripresa per guadagnare nuova clientela alla bevanda. Si usano tradizionalmente cannella, zenzero, noce moscata, chiodi di garofano e pepe garofanato, ma anche miele e cioccolato.
Di recente nei menu delle caffetterie sono comparsi anche caffè all’arancio, alla nocciola, alla vaniglia, perfino alla rosa, riuniti nella suadente categoria ‘coffee cream’. Il dizionario si è così arricchito di tutta una serie di neologismi in funzione degli ingredienti: ‘cioccolato- so’, ‘mandorlato’, ‘nocciolato’ e via dicendo, perfino ‘viziato’. Fanno tenerezza, al confronto, il caffè ‘romano’, un espresso con un ricciolo di scorza di limone, e il ‘marocchino’, specialità torinese: caffè, una spolverata di cacao dolce, schiuma di latte e ancora cacao. 

I luoghi del caffè tra passato e presente

L’ultima sventagliata di parole legate al caffè nasce proprio in riferimento al locale pubblico che lo serve. Seguendo un ordine cronologico, la prima citazione spetta alla ‘bottega del caffè’ di veneziana memoria, ritrovo di intellettuali, affaristi e sfaccendati, immortalato nei quadri del Longhi e nella prosa di Carlo Goldoni, donde due saporiti modi di dire: ‘chiacchiere da caffè’ e ‘politica da caffè’.
Allo stesso periodo storico appartengono la coffee house inglese e il caffé chantant della Parigi della Belle Epoque, che in Italia diventa ‘caffè-concerto’, e poi ancora i caffè venziani Florian, Lavena e Quadri. Il termine più fortunato, in ogni caso, è quello di ‘caffè letterario’, che nel tempo ha guadagnato la dimensione virtuale di cenacolo intellettuale, iniziando dalla rivista «Il caffè» del patriota milanese Pietro Verri (1764) fino ai più recenti ‘internet caffé’, dove ogni tavolino è collegato al resto del mondo.
Nessuna preclusione per le nuove tecnologie, ma una viva raccomandazione: che i caffè storici con la loro storia, i loro spazi e arredi originali, le loro specialità, non soccombano alle logiche di mercato. Questi esercizi sono l’anima di una città, testimoni della sua storia e di valori che hanno validità fuori dal tempo.